Progetto per un albergo in Sardegna del 1966

Il titolo di un bel film di Ermanno Olmi – Il mestiere delle armi – ben si adatta alla figura di architetto-educatore di Enrico Mantero. Del suo alto profilo di architetto militante la Facoltà di Architettura civile di Milano Bovisa cu stodisce anche il nome, assegnato a un premio annualmente destinato agli studenti neolaure ati più capaci e meritevoli. Si tratta per ora di un premio di puro prestigio culturale, che non comporta medaglie o somme in denaro, né pubblicazioni, che sembra tuttavia ogni anno ribadire l’alto livello raggiunto dai candidati nel proprio percorso formativo per diventare architetti, meritevoli quindi di essere prima segnalati poi posti in graduatoria nel nome e nel segno di Enrico Mantero. Vale dunque la pena interrogarsi sul perché Enrico Mantero sia assurto al ruolo di eroe della facoltà di Architettura civile di Milano Bovisa, Politecnico di Milano, e ciò comporta per chi l’ha apprezzato dapprima come suo studente nei lontani anni Sessanta – quelli della contestazione per intenderci – e poi come amico e collega nella comune sperimentazione didattica e nell’inse gnamento, la responsabilità di rendere esplicite oggi alcune delle ragioni del suo valore. Quale viatico di questo breve excursus su Enrico Mantero valga in ogni caso il testo di seguito citato e recentemente pubblicato in un bellissimo volumetto dell’editore milanese Hoepli, nell’anniversario della scomparsa dell’amico di Enrico – e quasi fratello maggiore – Gui do Canella: “Quanto al titolo di ‘maestro’ lo accetto, senza ombra di falsa modestia, solo entro quei limiti che ormai fanno di me un insegnante cha ha scelto di continuare a stare a scuola, perché la scuola ha alimentato la mia ricerca e il mio lavoro di architetto e viceversa. Infatti credo di aver profittato dell’insegnare per fare ricerca in presa diretta con gli allievi, e quindi in questo senso mi sento un maestro, come sono definibili autentici maestri tutti coloro che praticano un insegnamento attivo nelle scuole di ogni grado”. (Guido Canella, A proposito della scuola di Milano, Hoepli, Mila no 2011, p. 15). Nell’universo nient’affatto omogeneo delle facoltà di architettura italiane la Scuola di Milano ha rappresentato a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso un punto di convergenza di giovani allievi, attratti dall’insegnamento dei maestri della seconda generazione del Movimento Moderno, quelli laureati intorno agli anni Trenta del secolo passato. In particolare a Milano si proiettava in quegli anni sul pia no dell’insegnamento, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, il prestigio culturale di maestri di riconosciuta esperienza sia per le estese competenze professionali, che per una visione aperta alle vicende nazionali dell’architettura e dell’urbanistica europee. Rogers, Albini, Bottoni, Belgioioso, come per altro verso Samonà e Gardella a Venezia, mae stri della seconda generazione del movimento moderno, rappresentavano anche i fautori del rinnovamento dell’insegnamento in architet tura e di un più profondo legame con le vicen de culturali e politiche legate al destino delle città italiane. Anche Enrico Mantero affidato dal papà Gianni alla cerchia del coetaneo Ernesto Nathan Rogers, entra all’epoca a far parte di quell’officina milanese che già in passato aveva portato il comasco Giuseppe Terragni, suo concittadino, a farsi interprete e punto di riferimento per una comune azione culturale sulla scena milanese, sia nella pratica sul ter reno di una implicita critica della professione di architetto che su quello assai più ambizioso di un contributo teorico alla definizione del nuovo volto razionalista dell’architettura. Il primo elemento su cui riflettere è dunque quello – nelle diverse condizioni – della continuità dell’azione svolta da Rogers e dai suoi allievi nel promuovere la critica e le occasioni di una diversa visione riferite all’architettura e alla città nella pratica e nell’insegnamento. Del resto la parola continuità veniva proclamata a chiare lettere anche nel nome della testata della rivista diretta all’epoca da Rogers – “Casabella Continuità” appunto – tanto che la medesima assumeva nel panorama europeo, per scelta di articoli di casi esemplari e di analisi storica, il ruolo di forum aperto alla discussione del punto di vista originale degli architetti italiani su molte delle questioni che legavano e legano l’architettura alla città italiana ed europea alla storia, alla politica del territorio ed alle vicende economiche e sociali della vita civile. La scuola e l’insegnamento, sia come prassi formativa che come svolgersi di un’azione di rinnova mento sul piano delle idee e del sapere tecnico, diventavano, a partire dagli anni Sessanta, il banco di prova per ampliare e consolidare un impegno civile senza il quale l’affermazione del diritto alla conoscenza espresso dalla Carta Costituzionale e la partecipazione stessa alla vita pubblica quali cittadini responsabili non avrebbero potuto attuarsi e contribuire attivamente al suo progresso civile. Ricordo in proposito come il credo rogersiano proclamato davanti agli studenti nel corso delle frequentatissime lezioni, sia di Composizione architettonica del terzo anno che di Caratteri stilistici dedicate alle figure dei grandi archi tetti della prima generazione del movimento moderno – Bherens, Van de Velde, Wright, Le Corbusier, Gropius –, si nutrisse delle tre paro le fondamentali capaci di strutturare e fare da riferimento nella prassi e nell’insegnamento: Uomo, Cittadino, Architetto. Per quanto riguardava l’insegnamento della disciplina architettonica e degli studi urbani si trattava anche di elaborare una conoscenza operativamente orientata, fondata cioè sulla consapevolezza degli aspetti problematici (e sugli strumenti per intervenirvi) della realtà sociale e territoriale e non solo su quelli specialistici del mestiere. La didattica per temi e lo stretto rapporto tra ricerca e didattica costituirono l’invenzione e la struttura portante di questo progetto culturale, capace di dare impulso e interesse alla partecipazione degli allievi architetti a un processo di crescita formativa comune applicato a situazioni e problematiche esterne. Al di là delle differenze di imposta zione tra i docenti allievi di Rogers, tra i suoi collaboratori e quelli di Albini e di Bottoni e molti altri che sarebbe troppo lungo elencare, la fase istitutiva del nuovo insegnamento non nozionistico, la ricchezza dei contributi che ne articolava fasi ed obbiettivi, soprattutto nella didattica ma anche nella ricerca, venne ampia mente condivisa e sostenuta con sperimentazioni, verifiche applicative ed uscite sul campo. A partire dalla centralità della conoscenza istituita con queste forme propedeutiche alla scoperta della disciplina, altrettanta densità di contenuti assumevano i materiali didattici, preparati per i diversi temi proposti. Si trattava della scuola, del teatro, del carcere, temi che Rogers e i suoi assistenti andavano proponendo e che trovavano di anno in anno uno sviluppo coerente e culturalmente innovativo. Agli aspetti storici e territoriali capaci di far risaltare il carattere diacronico dei fenomeni insediativi e la ricchezza oltre che la dialettica dei punti di vista sugli aspetti progressivi della funzione approfonditi nelle lezioni, si affiancavano infatti i contributi degli esperti esterni legati all’esperienza della gestione amministrativa della prassi progettuale. Scorrendo le immagini della generazione alla quale appartenevo come studente di architettura iscritto alla Facoltà nel 1964, la figura di Enrico Mantero ritorna come quella di un giovane architetto intento a elaborare all’interno del gruppo docente milanese un metodo originale di conoscenza della prassi progettuale. Qui la libertà di pensiero ed i vincoli imposti dal programma funziona le attingevano alle esperienze delle precedenti generazioni – i padri tra le due guerre – nelle nuove condizioni della società affluente più o meno consapevolmente orientata ad estendere e consolidare i diritti all’istruzione, alla salute, alla casa. Dell’esperienza didattica del terzo anno e di una progettazione intesa come attività in primo luogo conoscitiva, del rapporto personale con Enrico Mantero sul tema oltre modo ostico del carcere – all’interno del Corso diretto da Guido Canella, conseguente a quello precedentemente proposto sulla scuola e sul teatro da Ernesto Nathan Rogers –, con servo ancora la ricchezza del rapporto umano e la disponibilità ad accettare sul piano della proposta anche il punto di vista ingenuo del giovane studente alla ricerca di certezze. Gli studi che all’epoca Enrico Mantero andava ultimando sulla figura di Giuseppe Terragni (cfr. Enrico Mantero, Giuseppe Terragni e la città del Razionalismo italiano, Dedalo, Bari 1969) interagivano attivamente con la didattica per temi e, com’era avvenuto nel caso del corso sul teatro, era possibile fare riferimento ai paradigmi della razionalità come in precedenza a quelli del comportamento drammatico. Men tre in facoltà si annunciava, con agitazioni e occupazioni come nel resto del Paese, la totale rimessa in discussione da parte del movimento studentesco dell’epoca dell’insegnamento ancora formalmente impostato per corsi ed esercitazioni separati e nella sostanza puramente ripetitivi e nozionistici, si apriva una lunga fase di transizione nella quale nuove energie e impegno culturali si proponevano di dare una risposta anche organizzativa di scuola a tempo pieno, per laboratori, alla scolarizzazione di massa e all’accesso all’istruzione superiore di categorie sociali sino ad allora completamente escluse nella storia del nostro Paese. Correva l’anno 1968 e si scopriva l’emblematico binomio gramsciano di verità rivoluzionaria. Del periodo di sospensione e ritorsione operata dal Ministero dell’Istruzione dell’epoca nei con fronti del Consiglio di Facoltà, incline a favorire l’azione di rinnovamento e sperimentazione della scuola portata avanti dal movimento studentesco, ricordo in particolare le iniziative seminariali e l’istituzione a tratti volontaristica di una scuola serale aperta anche ai diplomati degli istituti tecnici. In effetti il volontarismo caratterizza, al limite della pur generosa dissipazione di energie personali e collettive, molte delle iniziative didattiche e di uscita all’esterno dell’epoca, alla ricerca di interlocutori e conte sti credibili nella loro capacità di rappresentare istanze e problemi reali da trasferire nella formazione. Nel precedente ciclo del corso di Composizione architettonica diretto da Ernesto Nathan Rogers, si era proposto il tema del teatro con il felice coinvolgimento di nuove forme di comunicazione didattica – i montaggi didattici – e di drammatizzazione collettiva come quello dell’ingresso in facoltà del gruppo del Living Theatre. Tutto ciò aveva finito per contribuire a scardinare l’autoesclusione della Facoltà dalla realtà esterna, e affermare la necessità di guardare alla realtà per definirne anche utopicamente nuovi indirizzi e forme progettuali. Si rimandava didatticamente a un’interpretazione più sistematica delle problematiche urbane della modernità lette nei diversi contesti internazionali. Le forme didattiche pre-progettuali e gli orientamenti operativi sui quali impostare individualmente il proprio lavoro di progetto ne divenivano il necessario corollario. Si trattava in altre parole di definire forme paradigmatiche, sia linguistiche sia tipologiche, di un metodo di apprendimento della composizione architettonica attraverso la conoscenza fenomenica della realtà disciplinare nella quale il progetto si sarebbe calato, in modo non imitativo o ripetitivo, ma con ipotesi d’intervento adattabili al ruolo e alle funzioni specifiche integrandone le diverse forme tipologiche nella città e nei contesti, nel loro divenire. Poiché il metodo di trasmissione della conoscenza dell’arte progettuale che valeva per il teatro – il rapporto tra ricerca e didattica nell’ambito del la disciplina e l’illustrazione degli esempi e dei riferimenti – sarebbe risultato valido per altre funzioni di vita associata. Esperienze partecipate e faticose che sarebbero diventate patrimonio e bagaglio culturale per molte generazioni di futuri architetti e docenti, guidavano a un più maturo e responsabile rapporto tra sapere, saper fare e problematiche applicative. Nella collaborazione con il gruppo di ricerca guidato da Lucio Stellario d’Angiolini, Mantero sviluppava in quegli anni la didattica sui nuovi temi delle fiere e del sistema universitario. Articolata per paradigmi, la ricerca affrontava i nuovi livelli di complessità territoriale aprendosi a questioni e apporti ancor più sistematici. Sulla scorta della critica al modello istituzionale dell’istruzione superiore, il tema dell’università e quello del sistema delle fiere lombarde e del rapporto teoria-pratica nell’istruzione secondaria aggregavano negli anni della sperimentazione, in modo sia autoriflessivo che applicativo sui diversi contesti lombardi, analisi, ricerche e tesi di laurea, coinvolgendo nello studio e nel progetto gli urbanisti del gruppo d’Angiolini. Si riproponeva così, anche su questo versante, una linea di lavoro che era già stata patrimonio degli architetti delle avanguardie europee tra le due guerre mondiali, in analogia con quanto aveva fatto il gruppo comasco con la partecipazione sui temi della città funzionale al CIAM (Congressi Internazionali di Architettura Moderna) di Atene del 1933, ove era stato proposto il progetto del nuovo piano regolatore per la città di Como. Circa i contesti applicativi del le ricerche sul tema universitario ricordo in particolare quelle condotte nel Cremonese e Mantovano a contatto con una realtà sociale tanto decentrata rispetto alla metropoli milanese quanto significativa dal punto di vista del rilievo storico-insediativo e del paesaggio. Anche se il senso del racconto che svolgiamo non vuole essere quello di una ricostruzione storica, né quello di un esaustivo profilo biografico, giova tuttavia ricordare come in qualità di direttore del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura del Politecnico di Milano e nel quadro delle relazioni attivamente instaurate insieme agli altri docenti in collaborazione con università italiane e straniere, Mantero incoraggiasse una significativa attività di mostre, seminari e workshop di progettazione, tesi a documentare all’esterno il legame tra ricerca e didattica, soprattutto a valorizzare l’originale impostazione scientifica e progettuale riconducibile alla tradizione d’insegnamento svolto presso la scuola milanese. L’intensa attività di collaborazione svolta a partire degli anni Ottanta con la TU Delft Faculty of Architecture con le facoltà di Architettura di Atene e Salonicco, rappresenta un esempio significativo di questa apertura, non solo verso la realtà lombarda ma anche verso altre realtà insediative, quella olandese in particolare. Anche questo rappresentava un modo per riannodare e dare continuità ai legami con una realtà che aveva rappresentato tra le due Guerre il terreno di confronto di una relazione virtuosa tra pianificazione urbana, progettazione architettonica e legislazione urbanistica. Su tutti i temi della città funzionale e della nuova oggettività man dati a memoria dai cultori della storia dell’architettura moderna, il workshop estivo svolto a Delft nel 1982 divenne l’occasione per rivisitare – anche su una sua amata bicicletta da corsa, poi rubatagli all’Aja da qualche esperto intenditore – i luoghi della memoria paterna. Agli esordi di quella ridestinazione delle aree portuali che avrebbe caratterizzato la città di Rotterdam per gli anni a venire, sarebbe seguita una mostra allestita a Rotterdam dei progetti di laurea successivamente elaborati in Facoltà sulle aree portuali dimesse della città, parallelamente alla preparazione di due mostre di rilievo: quella sull’opera di Giuseppe Terragni – attingendo per la prima volta all’archivio originario del grande architetto – e quella sull’opera di un altrettanto grande ed impor tante architetto olandese, Jacobus Johannes Pieter Oud, preparata per l’occasione dalla Rotterdamse Kunststichting e successivamente allestita a Como presso la sala del Broletto. L’attività sia didattica che di ricerca svolta insieme a Enrico Mantero nell’organizzare, preparare e realizzare questi scambi e queste mostre avrebbe permesso di instaurare contatti stabili e significativi con i maggiori studiosi olandesi sui temi urbani e attuali: docenti a Delft presenti nelle più importanti istituzioni olandesi come il Museo di Architettura – all’epoca ancora ad Amsterdam ed oggi NAI a Rotterdam -. Un legame che avrebbe favorito nel tempo visite e scambi, allargando il cerchio delle conoscenze scientifiche e l’orizzonte delle future reciproche collaborazioni tra sedi universitarie. Laureati sì ma sul campo. Di quell’esperienza e di quel metodo – anticipazione dei molti workshop che sarebbero seguiti nel corso degli anni – sarebbe rimasto il carattere esemplare di un progetto capace di affrontare tutti gli aspetti della pratica urbana, meglio definito da Lucio Stellario d’Angiolini, come “il farsi della città”. In questo caso, le questioni irrisolte dal punto di vista locale, quali l’occupazione, la mobilità, il livello di scolarità e gli aspetti demografici e dei servizi, potevano venir inserite in modo esemplare in un processo di trasformazione degli assetti insediativi capace di riassumere in sé le politiche d’intervento, le sintesi compositive e progettuali, e l’ambizioso auspicio di un nuovo modo di fare scuola. Converrà infine provare a sciogliere alcuni de gli interrogativi posti all’inizio di questo scritto, in particolare quelli riferibili all’attualità del pensiero di Enrico Mantero nel contribuire a definire un ruolo propositivo ed attivo della scuola nei confronti della realtà esterna. La prima riflessione è che l’azione educativa nei confronti degli allievi-architetti non può prescindere da una progressiva presa di coscienza dello stretto rapporto tra strumenti e fini, sia conoscitivi che operativi. Esemplare in proposito è lo studio e l’approfondimento attraverso gli anni compiuto da Enrico Mantero delle problematiche stilistiche, urbane ed espressi ve elaborate da Giuseppe Terragni e dalla sua cerchia a Como tra la fine dei Venti e l’inizio degli anni Quaranta. L’assimilazione del Razionalismo a un funzionalismo di maniera o di pura poetica d’epoca, è presente continua mente e con fondate argomentazioni messo in discussione. In una bella e assai densa raccolta postuma di scritti di Enrico sull’argomento (Enrico Mantero, Civiltà di Terragni, ricerche e scritti 1966-2001, NodoLibri, Como 2005), si afferma tra l’altro, a proposito del laboratorio della progettazione: “La ricerca ovvero il laboratorio di Terragni (…) si fonda su tre direzioni ed esprime tre anime: quella della contestualizzazione e quella della moralità e quella del ruolo rivoluzionario dell’architettura. Alla prima appartengono le tipologie derivanti dall’approccio monumentale, alla seconda quelle derivanti da profondi rapporti con la struttura urbana, alla terza quelle derivanti dalla tecnica e dagli stilemi del sistema pilastro-trave cosi come del sistemi parete-trave, precisando in tal modo gli itinerari tra loro connessi della ricerca, è forse lecito discriminare nell’opera di Terragni, attribuendo maggiore consapevolezza di questa connessione a certe opere piuttosto che altre, proprio perché testimoni delle “tre anime” nel la loro simultaneità” (p. 74). Dalla lettura dell’opera di Giuseppe Terragni da parte di Enrico Mantero emergono affinità di contenuto, indicazioni di metodo e proiezioni didattiche che sollecitano uno studio più ponderato e articolato di tutto il suo lavoro: sul terreno della sperimentazione didattica forme organizzative che devono essere subordinate allo scopo primario del progetto; sull’istituzione – ogni volta ai fini progettuali – del fitto intreccio tra discipline e sulla complementarità non specialistica dei punti di vista e delle reciproche competenze. Infine, anche per quanto riguarda i fenomeni insediativi e la loro attendibilità anche ai fini compositivi, si tratta di riconoscere come la stretta interrelazione tra progetto urbano e progetto architettonico praticata da Enrico Mantero nella ricerca e nell’insegnamento abbia voluto farsi interprete di una precisa idea di città razionale e classica, senza la quale l’architettura contemporanea non potrà che arenarsi nelle secche della pura emulazione o nell’acritica ripetizione di schemi precostituiti.

[MARIO FOSSO da MANTERO: CENTO ANNI DI ARCHITETTURA]