Casa del pittore Italo Zetti a Sestri Levante

Fino al terzo anno della Facoltà per Enrico io ero “il ragazzo di Santa Maria Novella”, per uno studio che quell’anno avevo fatto sulla stazione ferroviaria di Giovanni Michelucci a Firenze. Il nostro dialogo iniziò nell’agosto dello stesso anno, il 1982: a Delft in Olanda mi ritrovai al suo fianco, a disegnare sullo stesso tavolo. Ci scambiammo degli acquerelli e iniziammo con il parlare delle tecniche di rappresentazione, del disegno in architettura; mi chiese notizie sugli allievi di Michelucci che avevo avuto come insegnanti alla scuola d’arte di Pistoia. Giorno dopo giorno mi par lò di quando lui alla mia età era stato studente di Ernesto Nathan Rogers, dell’impegno civile che un architetto critico-intellettuale deve avere, della guerra dei nostri padri e di tanti altri argomenti. Il seminario olandese si concluse con una relazione del professore, un enunciato sull’architettura dove per Enrico “(…) l’architettura è un mestiere, che si può
senz’altro imparare. Tuttavia lo studio necessario deve essere sempre finalizzato, e la capa cità di finalizzare rivela il grado di sensibilità verso l’architettura e viceversa. Il carattere artistico di questo mestiere si rivela e sta nel ruolo critico, ovviamente nei confronti della realtà, del progetto: da qui, l’importanza del
progetto contestualizzato e, ancora, l’impor tanza di legare ragioni del progetto alla storia
del contesto, intesa come coacervo di proble matiche”.
Le sue parole, a seguito delle nostre lunghe
chiacchierate, i suoi caratteristici sguardi e
strizzatine d’occhio, mi davano la sensazio ne di essere indirizzate direttamente a me;
ovviamente non era così, ma tutto questo fa
comprendere la sua grande capacità maieuti ca, di trarre da ognuno di noi il meglio di noi
stessi. Successivamente, rientrati a Milano,
ebbe modo di sottolinearmi che non dovevo
tralasciare l’architettura imparata sui banchi
della scuola d’arte, poiché “più un architet to conosce la storia delle arti figurative più è
in grado di cogliere dei riferimenti utili alla
risoluzione di problematiche compositive”.
Fu l’iniziazione all’amore per l’architettura,
del fare e pensare l’architettura come felicità,
l’inizio anche di un’amicizia, ritrovandomi a
vivere con lui quell’analoga “cronaca di poveri
amanti per l’architettura” come lui stesso de finì l’esperienza vissuta con Ernesto. Enrico
Mantero figlio dell’ingegnere Gianni che gli
trasmise una maestria costruttiva, figlio d’arte
quindi, ma anche figlio dei maestri comacini
e dei padri razionalisti come Pietro Lingeri e
Giuseppe Terragni che Enrico non avrebbe
mai smesso di studiare e di setacciare in con tinuazione nei loro progetti: “un debito cul turale nei confronti dei padri”, come lui stes so più volte ricordava. Tutto questo non è che
un inizio, un punto di partenza, esiste poi,
nello svolgere questo mestiere di architetto,
una prassi progettuale, una stratificazione di
esperienze dove i progetti si contaminano tra
loro e gli ultimi si autogenerano su quelli pre cedenti. È questo oggi il mio tentativo in una
rapida espressione di architettura a ritroso nel
tempo di cogliere i punti salienti del mestiere,
così come praticato da Enrico.
La casa per un pittore a Sestri Levante, (Ge nova 1960-1962), è un punto di partenza,
un murare una prima architettura memore
di quelle antiche, quelle contestuali liguri,
ma c’è anche un’analogia fatale con i salienti
della chiesa di Sant’Abbondio a Como, nel
riproporre lo stesso profilo in pietra, la stes sa conclusione con il cielo. In quest’opera è
presente l’atemporalità dell’architettura che si
estende agli sfondi degli affreschi di Giotto e
Piero della Francesca, per migrare fino a Siro ni, Soffici, Carrà e Michelucci. Tutte queste
analogie figurative ci narrano il permanere
di alcune regole architettoniche. Terragni
pose il proprio cavalletto a Sant’Abbondio,
disegnò l’abside con le torri campanarie, il
profilo della facciata e ne sviscerò la sezione
interna, traslando così questa matrice in una
delle ipotesi di case a gradoni per l’area della
Cortesella. Enrico assorbe tutto questo, l’es senza di una storia di lungo periodo e quella
già plasmata dalla lezione terragniana. Così
la città murata, con la figura imponente del
perimetro delle mura e delle torri di pietra,
diventa il riferimento per l’incastellamento del progetto del colorificio a Tavernerio, (Como
1964), dove la nuova configurazione sostitui sce le superfici in pietra con pareti in cemento
armato a vista.
Le case a gradoni per la Cortesella di Terragni
e il progetto di Mino Fiocchi per il concor so per il Piano dell’Isola Comacina del 1921
sembrano i riferimenti di un progetto di En rico del 1967, per un quartiere di espansione
a Como in via Oltrecolle, realizzato solo in
minima parte, dove l’idea primordiale conte neva l’assunto di ispirazione terragniana trat to appunto da quel Razionalismo costruttore
di città. Un borgo nuovo di edifici a grado ni, un quartiere adagiato sul piano inclinato
della collina come un borgo antico, dove le
vetrate di questi alloggi avrebbero fronteggia to la collina di Camerlata e quell’antica torre
del Baradello, già in precedenza incorniciata
da Terragni dalla corte dell’asilo Sant’Elia.
Ecco una delle prime attenzioni che si posso no rintracciare nei progetti di Enrico: sentire
il fascino del contesto che equivale a com prendere la geografia dei luoghi e trovare le
antiche testimonianze architettoniche e civili
che a loro volta hanno già superato questo
confronto e vengono quindi assunte come
possibili riferimenti di nuovi progetti. Qui
è bene porre una precisazione: per Enrico
questi riferimenti non andavano individuati
esclusivamente nell’area-studio, ma secondo
i temi e le problematiche del progetto, come
progettisti, si doveva essere liberi di estendere
la ricerca sin dove si ritenga necessario.
Un altro atteggiamento se vogliamo definire
di estensione lo ritroviamo per esempio nei
confronti dell’enunciato di Giuseppe Samonà
di unità tra architettura e urbanistica che En rico quale architetto intellettuale estende al
rapporto con altri mondi poetici, con altre
forme di linguaggio, come la pittura, la let teratura e il cinema; nel farlo sottolinea che
questo è del resto un comportamento che in
passato è si è sempre adottato, e riproporlo
oggi significa voler stare in continuità con la
storia. Spesso Enrico mi sottolineava anche
come qualsiasi opera d’architettura, che pos sa chiamarsi tale, antica o moderna, possiede
elementi di musicalità, elementi espressivi
che potrebbero contenere tutti gli elementi
delle arti gemelle.
Adagiare le strutture su piani inclinati è una
caratteristica che unisce i progetti eseguiti in
periodi diversi per le scuole di Olgiate Coma sco (1971-1975) e di Lipomo (1983).
Anche a Olgiate Comasco, il progetto genera le prevedeva un sistema dell’istruzione come
nucleo strutturale di un nuovo borgo che si
sarebbe consolidato poi con delle residenze,
restituendo ancora una volta un’idea di città.
Nelle scuole di Olgiate i prospetti degli in gressi si mostrano nella loro sezione-facciata
e sono quindi riconducibili a quella casa di
Sestri, ma qui le pietre, come nel colorificio
di Tavernerio, sono sostituite dal cemento ar mato a vista, come essenza di un peso greve
della materia, mentre i dettagli si avvicinano
e trovano un’analogia con l’architettura lecor buseriana di La Tourette.
Non sono omaggi o citazioni al grande ma estro, ma un modo per far approdare il pro getto ad un proprio linguaggio contempo raneo. Emerge una prerogativa progettuale
di Enrico, assunta dal padre Gianni e fedele
all’insegnamento rogersiano; di mostrare nel
progetto continuità e contemporaneità. Que ste scuole elementari e materne, impostate in
questa sequenza modulare che Enrico spesso
proponeva e amava definire come “sistema in
batteria”, permettevano una loro flessibilità
tipologica, poiché potevano benissimo, nel
tempo, prolungarsi, aumentando così le se zioni scolastiche necessarie. Emerge un con tenuto che il progetto deve necessariamente
assolvere: una sua funzionale chiarezza distri butiva.
L’ingresso della scuola materna mostra un
dettaglio, dove il lucernario che attraversa
tutto l’edificio esce all’esterno a costruirne
il portale d’ingresso; questo particolare ver rà successivamente ripreso nella scuola pro fessionale di Lurate Caccivio (1975-1976),
dove in scala diversa, il portale in doppio vo lume diventa una figura monumentale: l’es senza del progetto è come se venisse isolata
e messa in mostra. Nella scuola elementare
di Olgiate le diverse funzioni sono articolate
su tre diversi livelli, sfalsate di mezzo piano
tra loro; lo spazio per le lezioni interciclo è
soppalcato sulle attività didattiche tradizio nali ed è caratterizzato da un grande nastro
che come uno shed di una fabbrica cattura la
luce a nord e, dall’alto, la diffonde alla quota
inferiore, completamente aperta da un’ulte riore vetrata sul fronte sud, creando così una
ventilazione ideale nord-sud. Potremmo dire
che fin qui abbiamo una descrizione perfetta mente normale di un edificio razionalista, ma
tutto questo a Enrico non basta, l’architettura
si deve dotare di un dettaglio in grado di far
sorridere gli dei; e allora il grande nastro a
nord, che illumina la parte più alta dei sop palchi, scendendo sul profilo dell’edificio, si
piega e diventa un ulteriore lucernario che il lumina tutto il corridoio di ingresso alle aule,
posto alla quota inferiore. L’anima o l’essenza
di questa architettura è nascosta in questo
dettaglio che disegna anche il profilo della
facciata all’ingresso dell’edificio. Comprendo
meglio ora un riferimento che Enrico spesso
mostrava e che trova un’analogia con questo
progetto: la facciata di Sant’Andrea di Leon
Battista Alberti a Mantova. Anche nel com plesso scolastico di Lipomo (1983), il corri doio che conduce alla palestra è ancora legato
ai progetti visti in precedenza, dove la sezio ne è la principale rivelatrice degli elementi,
dei collegamenti e dei dettagli costruttivi. Se
è vero che nei progetti di Enrico le sezioni
svelano i dettagli e l’anima del progetto, i
prospetti mostrano, come li descrive Guido
Canella, “blocchi sapientemente scavati”. Ma
ora è bene introdurre un’ulteriore importante
caratteristica, sempre presente nei suoi pro getti: quella chiarezza tipologica e strutturale
che viene tradotta con disegni planimetrici
dal grande rigore geometrico. Questa non è
una questione secondaria o di poco conto,
poiché ha lo stesso peso compositivo affidato
agli alzati, alle sezioni e ai prospetti. Per En rico il progetto si carica di una serie di pro blematiche e idealità civili che devono trovare
una sintesi nella chiarezza del linguaggio del
disegno e, a sua volta, il progetto è stretta mente legato a questo coacervo di contenu ti; per Enrico quindi progettare significa far
coincidere più idee in una grande unità di
pensiero. Potremmo quindi dire che le sue
architetture sono sempre invase da un grande
contenuto icastico, che lui stesso sembra voler
svelare riportando in Diario collettivo un breve
brano di Italo Calvino, tratto da Lezioni ame ricane: sei proposte per il prossimo millennio:
“Cercherò prima di tutto di definire il mio
tema. Esattezza vuol dire per me soprattutto
tre cose: un disegno dell’opera ben definito e
ben calcolato; l’evocazione d’immagini visua li nitide, incisive, memorabili; in italiano ab biamo un aggettivo che non esiste in inglese
icastico, dal greco ikastikòs; un linguaggio il
più preciso possibile come lessico e come resa
delle sfumature del pensiero e dell’immagina zione (…)”.
Questo atteggiamento, di ricorrere ad un bra no letterario o all’immagine di un quadro, è
una ulteriore caratteristica presente nella sua
ricerca compositiva.
Ho verificato prima da studente e poi nella
professione che quando l’analisi progettuale
sembrava completa e il progetto di massima
ben configurato, tutto questo spesso a Enrico
non bastava: mi orientava verso alcune letture
mirate, necessarie per arricchire lo spirito del
progetto; mi invitava a osservare le forme, i
dettagli, a formulare nuove varianti, ad osser vare meglio architetture antiche o dei maestri
moderni; ad ascoltare le pause di uno spartito
musicale; ad avvertire e ricercare in un’opera
il momento di massima tensione; mi educa va a sentire il pathos dell’architettura, il mo mento lirico di un’opera; il valore metafisico
di uno spazio nell’immagine di un quadro o
nella scena di un film neorealista. Tutto que sto serviva per caricare al massimo il proget to di contenuti e di emozioni. Spesso questo
avveniva con delle telefonate in tarda serata,
tra le undici e la mezzanotte: io ero in studio,
sapeva di trovarmi e alla prima domanda su
cosa stessi facendo, rispondevo quasi sem pre che stavo riordinando, poi lui iniziava a
parlarmi e, ogni volta, aveva la capacità di
spiazzarmi. Parlava di tutto, dalla politica alla
Facoltà, non necessariamente di architettura,
ma alla fine tutto si traduceva in una questio ne progettuale, quindi operante per quello
che stavamo facendo.
Per un progetto avrei dovuto parlare con le
muse inquietanti di André Breton, per un
altro avrei dovuto chiedere soccorso a una
placida dea, quel progetto infine stava diven tando troppo articolato e pesante e, lui: “io
come Battiato preferisco l’imbianchino di Le
Corbusier (…). Domani mattina vai in libre ria e prendi Fuga da Bisanzio di J. Brodskij,
oppure, un altro giorno, Il sogno di Ossian di
Ingres (…)”.
Vi confesso che chi sta scrivendo, oltre a ri manere spiazzato, spesso non riusciva a capi re immediatamente i contenuti metafisici, a
tratti surrealisti delle sue telefonate e, di con seguenza, l’ascolto spesso si traduceva in un
fatale silenzio. Al mattino seguente non foca lizzavo immediatamente se la telefonata fosse
avvenuta veramente o se fosse stato un sogno;
così, come consuetudine, lo richiamavo dopo
alcuni giorni per chiarire meglio cosa inten desse e cosa dovessi fare.
Una sera di luna piena, parlandomi della ma gia della luce argentata riflessa sulle acque del
lago, gli dissi che con quella luce diventava
magico anche il portico di casa mia e che la
pietra grigia si illuminava e il profilo delle co lonne, che dal basso si rastremava verso l’alto,
era esattamente il contrario del tronco delle
Camerus sullo sfondo del giardino e, allora,
lui aggiunse: “a te piacciono molto queste
palme, le metti sempre nei tuoi progetti; tu
sei come mio padre, anche lui le amava, ne
piantumò parecchie qui nel giardino. Ti devo
dire che a me non è che facciano impazzire,
preferisco i tigli”; poi aggiunse: “ma tu lo sai
che tutto quello che sulla Terra viene influenzato dalla luna noi non lo vediamo mai? È l’al tra faccia della luna, quella che non vediamo
mai, che comanda tutto, è come un’architettu ra che tiene nascosta la parte più importante,
più bella. Nel progetto del filatoio di Rovato è
questo che dobbiamo fare: nascondere la nuo va aula conferenze all’interno del cortile anche
fresandola ad un livello interrato; il vecchio
edificio, come un grande scrigno, la conterrà
al suo interno”.
Una sera, ho voluto provare a spiazzarlo, di cendogli che ero in giardino, che stavo man giando una rosa e lui, con grande naturalez za, mi rispose che preferiva metterla in tasca
perché così, al mattino seguente, ne avrebbe
risentito il profumo. Devo dire che queste sue
telefonate erano sempre cariche di una forza
critica propositiva, assumevano un aspetto
magico ancora più profonde, delle revisioni
che faceva in Facoltà. Avrei voluto registrarle
tutte e mi sono odiato per non averle riscritte,
telefonata per telefonata.
Una sera, ricordo, mi confidò con una certa
delusione, che gli era sfumato un progetto al
quale era molto affezionato, la casa sul Bosforo
ad Istanbul, e mi disse: “Chissà perché i pro getti migliori non si realizzano mai”. Era un
progetto che conoscevo bene, perché Renato
Tomirotti aveva lavorato nello studio del pro fessore durante la stesura e, in quel periodo,
aveva iniziato un rapporto di collaborazione
formando con me, Attilio Pasqualini e Vitto rino Turra lo studio associato Sezione d’Archi tettura. È singolare che tra le opere più im portanti, voglio dire che più frequentemente
venivano assunte come riferimenti per la co struzione dei nostri primi lavori, spesso figura vano: la Casa sul Lago per un Artista eseguita
per la V Triennale di Milano nel 1933 da suo
padre Gianni – una limpida opera razionali sta che noi vedevamo come la casa del custode
della Casa del Fascio – e il progetto per una
casa sul Bosforo a Istanbul del 1981-1984 di
Enrico – un blocco pieno triangolare, scava to con sapienza scultorea -. Sapendo quanto
il professore amasse quel progetto, tanto da
ritenerlo uno dei più appassionati che avesse
fatto, il senso malinconico di quella telefonata
mi rimase sempre nella mente. Poi, un giorno,
dopo alcuni anni, lo chiamai: “Professore, for se possiamo fare la casa sul Bosforo…” dissi
io,
“Ma come, dove?” disse lui, “a Carpendolo, in
Provincia di Brescia” risposi. “Ma… mi sem bra una cavolata…”, e aggiunse: “L’ho pensata
e progettata per essere fatta a Istanbul sul Bo sforo e non nella pianura bresciana”. “Faccia mo come ha detto Melnikov, i bei progetti che
qui non si sono realizzati, si potranno sempre
realizzare in altri parti del Mondo” dissi, e lui
“Con tutto il rispetto per Melnikov che come
tu ben sai amo moltissimo, mi sembra lo stesso
una cavolata”. “Professore, replicai non si pre occupi, ci sono delle buone ragioni contestuali
per riproporre il progetto”. “Va bene” – disse
lui – ne parleremo, anche se, al momento, la
cosa non mi entusiasma”.
Quando, alcuni giorni dopo, il professore vide
il progetto in planimetria, inserito nel nuovo
contesto, si convinse quasi subito; il lotto si
concludeva con una forma triangolare che si
contrapponeva al grande vuoto scavato nel vo lume triangolare della casa. La tavola prepa rata aveva in allegato l’immagine pittorica di
un affresco, il Battesimo di Costantino (1520-
1524), che riassumeva l’essenza del progetto
della Casa sul Bosforo: questo modo di trovare
dei riferimenti o delle matrici anche a poste riori era un atteggiamento che il professore
apprezzava molto, perché confermava che il
progetto trovava una continuità con la storia.
Enrico si illuminò e ne fu felice, autorizzan doci a procedere; le esigenze funzionali della
nuova committenza furono per lui l’occasio ne di razionalizzare alcune parti del progetto
originale che erano state generate da influen ze architettoniche bizantine. In un successivo
incontro, io portai un disegno colorato del
fronte principale, che raffigurava nella coper tura – che i nuovi committenti volevano come
terrazza -, un’altana che occupava il vertice del
triangolo e conteneva lo sbarco dell’ascenso re. Il professore si adirò non poco e mi dis se subito: “O hai il coraggio di metterlo sul
fronte della facciata come l’Alberti fa a Man tova… ma in questo caso con il vuoto sotto mi
sembra una porcata”. Replicai che anche a me
l’idea di mettere il nuovo volume sul fronte
non sembrava giusta, per questa ragione l’ave vo traslato nella parte terminale, perché così,
nella realtà, dal giardino, non si vedeva; e qui,
il professore si adirò ancora di più e, alzando
il tono di voce, mi disse: “Nella realtà non si
vede è una frase che dicono i geometri, noi
architetti non dobbiamo mai usarla, perché
gli dei vedono tutto”. Quando andai a casa
presi subito un pastello blu e feci sparire tutto
quell’ultimo piano nel cielo.

[AURELIO PEZZOLA da MANTERO: CENTO ANNI DI ARCHITETTURA]